Perché i detrattori della Gimbutas avevano torto

Marija Gimbutas

Marija Gimbutas (Monica Boirar, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons)

Sono una neofita, una che non è in alcun modo specializzata per poter entrare nel dibattito accademico. Ma ritengo di saper leggere (una laurea in lettere credo mi abbia fornito questa capacità) e non ho trovato tracce di ciò che viene comunemente imputato a Marija Gimbutas. E qui te lo spiego in un linguaggio semplice. 

Matriarcato, società pacifiche, inesistenza dell’elemento maschile, solo statuette femminili: le quattro più grandi cantonate sulla preistoria, formulate da quella femminista della Gimbutas. Tutte cose smontabili, smentite, tutte teorie campate in aria su cui decine e decine di archeologi e antropologi hanno riso sù. Roba mica da poco, visto che sono state adottate dai movimenti femministi per rafforzare la loro posizione. Insomma, la Gimbutas è stata messa tra due (imbarazzantissime) parentesi e dimenticata (se non quando si ha voglia di sfoderare un cinico sorrisetto).

Questa è l’idea di fondo di tante citazioni in cui, nell’arco della mia vita, mi sono imbattuta. E non ho mai avuto la necessità di leggermi qualcosa di questa – tristemente – famosa scienziata proprio perché tutti la denigravano (perché leggerla, dunque?). 

FINCHE’ (e qui è d’obbligo il maiuscolo) non ho iniziato a trovarla citata in autori nuovi; stavolta però la direzione era un’altra. Non nego il mio stupore quando mi sono resa conto che, di fronte a più recenti scoperte archeologiche, qualcuno ha iniziato a dire: «Ehi, fermi un attimo. Ma ‘sta roba qui suona tanto di ‘Gimbutas’. Forse non tutto va gettato nel cestino, forse qualcosa va salvato.»

A quel punto mi sono incuriosita e sono corsa in libreria perché dovevo farmi un’idea mia, non filtrata da altri, non preconcetta. Un gentile commesso mi ha consigliato «Le dee viventi» (forse il titolo è un po’ forviante): l’ultimo libro, pubblicato postumo, che riassume abbastanza bene tutti i decenni di ricerca dell’archeologa (naturalizzata) americana; più divulgativo, più leggero. Sono partita da lì e me lo sono spolverato in pochi giorni perché quello che c’ho trovato scritto non era nulla di quello che raccontavano i suoi acerrimi nemici. Sono rimasta di sasso.

Lì, nero su bianco, ho potuto verificare che la Gimbutas non ha mai parlato di matriarcato (che implica un potere del sesso femminile su quello maschile): lei parlava di matrilinearità, teoria ripresa anche da altri studiosi, non solo donne (!), che in pratica – molto alla spicciola – significa che i figli seguivano la madre. Già, perché prima che si costituisse la società strutturata come la viviamo noi oggi (e non osiamo immaginare altro all’infuori di lei), non esistevano unioni stabili. Nell’arco della loro vita donne e uomini si potevano accoppiare con più partners. Parrà strano, ma nell’epoca in cui il senso di proprietà non si era ancora definito (anzi, non c’era neanche la necessità farselo venire), le persone non ‘si appartenevano’, non erano né oggetti né schiavi né in alcun modo obbligati a seguire il volere di qualcun altro. Addirittura, su quest’ultimo punto, accreditati studiosi sostengono che in quel periodo della vita umana costringere qualcuno a fare qualcosa che non gli andava, era davvero molto difficile. Tanto che chi voleva convincere qualcuno, doveva darsi da fare (e parecchio) con le arti oratorie. Bello vero? E’ soggettivo. 

Certo, esistevano ‘culture’ più guerriere di altre in cui ci si faceva valere a suon di lance e sassate, ma il mondo è bello perché è vario e l’esistenza di popoli guerrafondai non esclude l’esistenza di popoli meno inclini alla violenza. E questo lo dicono gli studiosi del settore.

Ad ogni modo, non è questo il fulcro del nostro discorso. 

Tornando alla Gimbutas: il matriarcato va depennato. Via, con un ben colpo di penna, senza rancori.

Arriviamo al pacifismo. La nostra archeologa è stata tacciata di voler dipingere le comunità antiche come pacifiche perché cullati da un sentiment femminile. L’hanno presentata come una femminista acerrima, spietata, una persona che pur di dimostrare la supremazia femminile riesce anche a distorcere completamente la realtà dei fatti (e qui vorrei dire che la Gimbutas ‘femminista aderente’ non è stata; ma vabbè, questo è un dettaglio). Ah, il movimento femminista che schifo! La Gimbutas come fa a dire che quei popoli di cui parla fossero pacifisti? Non lo erano per niente, dato che abbiamo trovato i loro cimiteri pieni zeppi di crani sfondati. Anzi, erano proprio violenti! 

C’hanno messo un bel timbro d’ignominia sopra e chiasso finito.

Peccato. Peccato che sia proprio lei – la Gimbutas – a dirlo (mi chiedo se almeno uno dei suo detrattori l’abbia mai letta davvero; ma vabbè, anche questo è un dettaglio). Questi popoli sì, sembra che uccidessero persone (anche giovani e bambini) a scopi cerimoniali, per poi seppellirli in luoghi a loro sacri, o almeno così si ritiene. Accadeva per esempio quando insediavano un nuovo territorio, oppure lungo (misteriosi) recinti a cerchio. La Gimbutas lo spiega nei dettagli. Non mi risulta che abbia descritto queste culture come ‘pacifiche’. Quello che lei invece asseriva, era l’esistenza di un equilibrio sociale all’interno di quelle comunità, tra l’altro ribadito in un’intervista: «Quella era una società equilibrata – spiegò –, non è vero che le donne fossero talmente potenti da usurpare tutto ciò che fosse maschile. Gli uomini occupavano le loro legittime posizioni, facevano il proprio lavoro, avevano i loro compiti e avevano anche il loro potere. Ciò è riflesso nei loro simboli dove si trovano non solo dee ma anche dei.»*

Bene, sfatato il mito che la Gimbutas elevasse quelle culture a una sorta di Paradiso Terrestre, passiamo a un’altra  critica: cioè che per quei popoli valesse solo l’elemento femminile. Con l’estratto precedente ho in parte già risposto. Ma se vi mettete a leggere qualcosa che ha scritto l’autrice, troverete più volte spiegato che esisteva anche il culto della fertilità maschile, che tuttavia – secondo l’archeologa – doveva essere inteso come forza ‘attivatrice’ di quella femminile. Come dire: mica scemi ‘sti primitivi! Si erano accorti che per dare vita c’era bisogno di un’abbinata: quella femmina/maschio (per il regno animale) e quella terra/acqua (per il regno vegetale). Ma il seme cresceva nel ventre della donna, quindi era lei a diventare simbolo della nascita, dell’accudimento ecc. Gimbutas non ha mai sottovalutato l’aspetto maschile, casomai sono state le culture primitive a dare maggiore importanza a quello femminile. Cosa c’è di sbagliato nel rilevare un semplice dato di fatto? Solo perché qualcosa va contro ciò in cui si è sempre creduto, non significa che sia da bannare (recriminare, osteggiare, cancellare). Se questa interpretazione dà fastidio a qualcuno (perché è questo il fulcro del problema), se ne faccia una ragione (come è toccato alle donne in millenni di storia – e non si trattava neanche di interpretazioni ma di cose date come certe, come ad esempio la minor prestanza intellettuale femminile; c’è voluto tempo, ma abbiamo dimostrato che non era vero. Fatelo anche voi, con i fatti però, non con le parole).

Ed eccoci arrivati all’ultima rimostranza: la Gimbutas ha analizzato solo il materiale che era utile alla sua teoria, mettendo da parte il resto. Bene, siccome m’era montata questa cosa di rivalsa contro i detrattori, mi sono andata a vedere quali fossero queste prove che la studiosa avrebbe ‘scansato’ o fatto finta di non vedere, cercando studi su quelle stesse culture su cui lei si era pronunciata. Volevo capire se la critica fosse fondata perché, non si sa mai, magari almeno su quello avevano ragione. Mai dire mai.

Se hai voglia, ti consiglio di fare il mio stesso percorso perché potrai vedere con i tuoi occhi che il materiale è inconsistente: quello che la Gimbutas non avrebbe voluto vedere in realtà si riferisce a qualcosa che è impossibile decifrare. Figure antropomorfe sì, ma asessuate o comunque difficilmente riconducibile a un genere definito. E proprio chi l’ha osteggiata, ha voluto rilevare che lo stesso materiale che lei leggeva come femminile in realtà era asessuato, a volte addirittura semplici rappresentazioni di parti anatomiche (ma guarda caso spaventosamente somiglianti a vulve, grossi seni e ampie natiche). Peccato (anche qui) che quando accade, la Gimbutas ne dà un’interpretazione più che convincente e il linea con l’espressione artistico-religiosa di quella determinata cultura nel suo insieme, non solo ‘aggrappandosi’ ad una singola statuetta enigmatica.

Dirò di più, anche mettendo da parte alcune delle interpretazioni più ‘spinte’, la teoria di fondo rimane convincente. Tanto più se si vanno a leggere le più recenti teorie. Insomma, Dio è nato Donna, ma – fermi tutti! – questo non significa che le donne (quelle in carne e ossa) fossero viste come dee in terra (e/o che comandassero sugli uomini).

Ma allora, cosa diceva la Gimbutas?

Semplice, che in diverse culture dell’Europa Antica (espressione con cui definiva l’Europa del neolitico e l’antica Anatolia nell’arco di un tempo che va tra il 7000 e il 3000 a.C.) il vissuto era intriso delle forze della natura in una «devozione religiosa (che) si rivolgeva alla ruota della vita e alla sua ciclica rotazione»**. Forze che erano interpretate come femminili e finalizzate in una o più dee che raccontavano e rafforzavano i concetti di nascita, nutrimento, crescita, morte e rigenerazione. Tutto questo la Gimbutas lo fece analizzando scavi e reperti. Queste riflessioni ci portano a pensare a un senso di uguaglianza tra i sessi. Nessuno deve prendersela, ma l’idea che oggi si sta sempre più delineando nel mondo accademico è proprio questa: pare che nella lontana preistoria vigesse un sentimento di parità tra sessi e che non vi fosse nessuna discriminazione in base al ruolo sociale. Non lo dico io, non lo dice la Gimbutas e non lo dice Graham Hancock. Semplicemente emerge dagli studi.

Pare strano che in giro si continui a trovare studiosi che insistono nel denigrare la Gimbutas e ogni teoria di un femminino (non femminismo! Sono due cose completamente diverse) preistorico forte quando anche David Graeber e David Wengrow hanno riconosciuto l’influenza femminile nella preistoria nel loro «L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità». Ma forse anche questi due personaggi (ricercatori, insegnanti universitari, saggisti, premiati con importanti riconoscimenti), non sono all’altezza di un qualsiasi assistente archeologo in scavi italiani minori, e che il Medio Oriente l’ha visto sulla cartina geografica. Uno di quelli che prende sonore cantonate, che senza batter ciglio dice a Gobekli Tepe sono state trovate statuette femminili ma che ciò non rappresenta nulla. E certo, perché non ne sono state rinvenute (almeno fino al momento in cui scrivo – e a quello in cui lui ha parlato). 

Perché alla Gimbutas sono state osservate così tante critiche?

Perché i suoi studi furono ‘adottati’ dai movimenti femministi americani, spingendone al limite le interpretazioni e facendone un vessillo. Quello che oggi potremmo rilevare è che, da un punto di vista di personal marketing, l’idea di aver avvicinato il movimento non fu lungimirante: per attaccare le femministe, attaccarono la Gimbutas, con buona pace della rilevanza oggettiva delle sue riflessioni. In pratica ad essere denigrata non fu propriamente la Gimbutas, ma piuttosto l’interpretazione che ne fecero le leader del movimento. Solo che ormai la bomba era stata lanciata, e la guerra iniziata (si salvi chi può).

Se ti stai chiedendo perché una teoria del genere dovrebbe sollevare così tanto polverone, bene, sappi che me lo sto chiedendo anch’io.

Perché la teoria di un’archeologa, che sostiene quanto fosse radicato nella vita comune di alcune comunità preistoriche un sentire religioso vicino alla femminilità, dovrebbe destare così tanta acredine e livore da parte di qualcuno? Manco gli avessero offeso la mamma.

Qui entrano in gioco meccanismi psicologici elementari ma potenti. Nella psicologia sociale, si parla di identità sociale: le persone costruiscono il proprio senso di sé attraverso l’appartenenza a gruppi e narrazioni condivise. Le teorie che mettono in discussione questi pilastri generano un processo di minaccia all’identità, quel disagio che si prova quando si è costretti a confrontarsi con informazioni che contraddicono ciò che si è sempre creduto vero.

È il motivo per cui scoperte che rimettono in discussione le fondamenta del proprio “mondo” possono scatenare reazioni sproporzionate: la difesa non è solo culturale, è viscerale.
Succede anche in psicologia clinica: la perdita di una narrazione stabile su di sé (ad esempio l’adottato che scopre la verità) può portare a uno stato di crisi identitaria – una destabilizzazione profonda, perché improvvisamente si apre una frattura tra ciò che si credeva e ciò che si scopre.

Poi c’è il fattore storico: la mascolinità egemone si basa su narrazioni che legittimano ruoli di potere e superiorità, spesso introiettati a livello inconscio. Quando una teoria come quella della Gimbutas insinua che non sempre è stato così, e che forse il dominio maschile è una costruzione relativamente recente, qualcuno va in tilt.
Bias di conferma: le persone tendono a difendere ciò che conoscono e a respingere tutto ciò che lo minaccia (ma se glielo andate a dire vi attaccheranno alla giugulare; e se siete donne vi prenderanno a male parole).

Il punto è che queste reazioni sono quasi automatiche, spesso inconsapevoli. Non è in gioco solo la storia: è la percezione del proprio posto nel mondo, il bisogno di sentirsi su una base solida.
Rilassatevi: le teorie della Gimbutas riguardano un tempo in cui la “società” – nel senso moderno – nemmeno esisteva. L’egemonia maschile si è imposta dopo, con la costruzione del primo impero accadico, con Sargon detto il Grande. Nessuno sta togliendo niente a nessuno: si sta solo ampliando lo sguardo.

Pensate quant’è potente questo meccanismo: quando la Gimbutas scrisse il libro «Le dee e gli dèi dell’antica Europa», l’editore le vietò di anteporre la parola ‘dee’ a ‘dèi. Così la prima edizione s’intitolò «Gli dèi e le dee dell’Europa antica». Otto anni dopo (otto) il titolo tornò come nelle intenzioni dell’autrice.

Ps. E’ vero che anche la Gimbutas ha preso cantonate.

Una è certa: l’ha fatto con Çatalhöyük quando prese per buoni alcuni reperti come i busti femminili stilizzati del tempio A.III/11.

Qui casca l’asino, non solo per la Gimbutas, ma per tutto il mondo degli addetti ai lavori. Figura pessima del mondo accademico: il primo responsabile degli scavi, James Mellaart, impossibile ma vero, falsificò diversi reperti (dette scandalo anche con il Dorak Affair, ma è un’altra storia). Sembra che fabbricasse di mano sua reperti che vendeva al mercato nero (queste le accuse). La vicenda è stata – questa sì davvero – molto imbarazzante e ancora oggi si fa fatica a reperire informazioni dettagliate su quello che combinò il famoso archeologo (o quello che gli fu imputato).

A noi interessano le conseguenze, e cioè che la sua intera opera di scavi è stata gettata nella pattumiera: nessuno è stato in grado di stabilire se l’intero corpus delle sue scoperte fosse qualcosa di reale o artefatto. Lui fu cacciato dalla Turchia, qualcun altro prese il suo posto e si ripartì da capo scavando altri ambienti. Quindi, anche un murale come quello citato non poteva essere preso in considerazione. Ma la Gimbutas, al tempo in cui scriveva, ancora non poteva saperlo.

-> Magari l’editore potrebbe mettere una nota in cui si fa presente questo particolarissimo aspetto (decisamente inconsueto e irripetibile – si spera) nelle edizioni future affinché nessun lettore possa essere tratto in inganno! Perché non tutti sono San Tommaso come me che vanno a verificare ogni cosa...

* Intervista a Marija Gimbutas del 3 ottobre 1992 a cura dei suoi studenti (disponibile su diversi siti tra cui Preistoria in Italia)

** Citazione da «Le Dee Viventi» Marija Gimbutas, Edizioni Medusa - riedizione del 2024 (segno che la Gimbutas ancora si stampa e si legge).

Le dee viventi

di Marija Gimbutas

Le dee e gli dèi dell’antica Europa

di Marija Gimbutas

L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità

di David Graeber e David Wengrow

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